giovedì 1 dicembre 2016

Reportage ossimorico del Torino Film Festival 2016


Quest’anno la manifestazione che tanto amo ha dato il meglio di sé, almeno per quanto sono riuscita a viverla, dato che, al solito, avrei voluto vedere molti più film rispetto a quelli che il lavoro, l’energia e la disponibilità di biglietti mi hanno consentito. Ho cercato di spaziare tra generi, registi e ambientazioni, per nutrire quanto più possibile la mia sete di visioni altre, di mondi vicini e lontani. Assenti i film italiani, quasi sempre esauriti o proiettati in orari incompatibili con i miei impegni. In calce troverete anche una lista di quelli che più mi è spiaciuto perdere. Intanto vediamo com’è andata con le mie solite recensioncine aneddotiche.

Between Us (USA 2016, Rafael Palacio Illingworth)
Film d'apertura della manifestazione. Indipendente, americano, una sorta di 500 giorni insieme meno patinato: coppia trentenne forse scoppiata forse no, chissà, tra avanti-indietro temporali, fotografata negli attimi di crisi più nera, tra tradimenti cercati senza risultati e ottenuti senza impegno, lavori più o meno frustranti, promesse poco convincenti. Niente di originale, ma godibile e ben recitato, con personaggi indagati in profondità e uno sguardo di limpida onestà sul mondo delle relazioni sentimentali, con il loro sottobosco di imposizioni sociali e voglia di trasgressione.

A quiet passion (UK 2016, Terence Davies)
Avevo grandi aspettative per questo biopic del noto regista inglese su Emily Dickinson, applauditissimo al Reposi, alla presenza dei suoi produttori e con dibattito a seguire: onestamente l’ho trovato davvero troppo pesante e di maniera, un lavoro rigoroso ma freddo, di ricostruzione pedissequa della vita triste e di scarsa soddisfazione della poetessa americana, intrappolata nel puritanesimo profondo che blocca qualsiasi afflato, suo e di chi le sta intorno. Cynthia Nixon, la mitica Miranda di Sex and the city, ce la mette tutta per dare verve a un personaggio riservato quanto inesorabilmente abbattuto dalla vita, ma è visibilmente a disagio in vesti ottocentesche (credo basti la foto a suggerirlo). Troppo insistenti le poesie, recitate in off per l’intera durata del film, fino alla tragica fine. Peccato davvero, perché l’attacco lasciava presagire un ritratto quasi magistrale (la giovane Emily che si ribella con fermezza al personale del collegio dove studia).

Porto (Brasile 2016, Gabe Klinger)
Anche questa visione è stata accompagnata dalla presenza del cast & crew e dal dibattito: il tutto reso tragico dal fantasma dell’attore protagonista, dedicatario del film, Anton Yelchin, classe 1989, star dell’ultimo Star Trek, morto quest’estate in circostanze non del tutto chiare, schiacciato dalla sua macchina in California (sigh). Un melò ambientato nella magica città portoghese, ricostruisce in tre tempi una stessa serata in cui ha avuto luogo un primo (e ultimo) appuntamento tra una determinata ricercatrice francese e un fragile scavatore inglese. Breve e incisivo, ricco di citazioni soprattutto dai registi dalla nouvelle vague, girato in 8 mm e in 33 mm a seconda dei momenti; la terza parte, risolutiva, è senz’altro la migliore. Forse fin troppo erudito e pretenzioso, una maggiore spontaneità non avrebbe guastato.

Jesùs (Cile 2016, Fernando Guzzoni)
Degrado socio-economico nelle periferie di Santiago del Cile, protagonista un adolescente inquieto e scapestrato che ha lasciato la scuola e chiede con l’inganno soldi al padre per uscire a fare nottata, tra alcol, droga e sesso, coi suoi degni compagni. Finché, spingendo la notte più in là, in un gioco fatto per noia da ubriachi, per uno di loro ci scappa la terapia intensiva. Visivamente potente, soprattutto nelle scene che fotografano la perdizione alcolica dei ragazzi, che letteralmente senza neanche rendersene conto, giocano col corpo di un adolescente in semi-coma fino quasi ad ucciderlo. Sensi di colpa inesistenti per alcuni, divoranti per gli altri e la difficile presa di posizione del padre del protagonista. Forse anche qui non ci troviamo di fronte a qualcosa di del tutto originale, ma la messa in scena è esplicita e coraggiosa e gli attori molto in parte. Meritatissimo il premio per il migliore attore al protagonista.

Los decentes (Argentina 2016, Lukas Valenta Rinner)
Premio della giuria per questo incredibile film argentino, uno dei miei preferiti in assoluto di quest’edizione. Grottesco e inaspettato, con una protagonista le cui opinioni spiccano cristalline nonostante non abbia più di 3 battute in tutto il film. Cameriera in una villazza altoborghese appena fuori Buenos Aires, Belèn è divisa tra il noioso e ripetitivo lavoro presso una famiglia di gente sola e viziata e le tentazioni di coloro che vivono aldilà della recinzione elettrificata che cinge questo quartiere residenziale: una comunità di naturisti fricchettoni che praticano l’amore libero in un contesto di accoglienza del prossimo e pace dei sensi. Inevitabile il conflitto tra le due parti. Divertente e corrosivo, con un finale scoppiettante. Nutro (credo) vane speranze ad augurarmi con tutto il cuore che trovi un distributore, ma meriterebbe di essere visto.

 Vetar-Wind (Serbia 2016, Tamara Drakulić)
Un gioiellino balcanico, che più indipendente non si può (e ci piace), visto al Reposi con cast al completo e la simpaticissima e giovane regista serba dai capelli rosa. Un racconto di formazione estivo, contemplativo e rilassante nelle atmosfere (la foce del fiume che divide il Montenegro dall’Albania), che ci racconta una località di villeggiatura di nicchia, incontaminata, in cui alle specie di uccelli rari e ai turisti in cerca di pace dei sensi si uniscono gli hippy che praticano kite surf. Una quindicenne di Belgrado, complessa e profonda quanto tragicamente rimandata proprio in filosofia (!),  vive la sua crisi adolescenziale innamorandosi a senso unico di un surfista biondo e impegnato, mentre il padre le tace la sua nuova vita. Il vento che domina il turismo surfistico culla lo spettatore in uno stato di malinconia placida, che lascia piacevolmente stanchi, come dopo una giornata estiva passata al sole. Carinissimo. Peccato scoprire dai titoli di coda che l’habitat affascinante mostrato nel film sia attualmente minacciato dallo scempio edilizio. Per cui in realtà manca a tutti gli effetti il lieto fine. 

Live cargo (USA 2016, Logan Sandler)
Non spendo molte parole per questo film, che mi ha deluso su tutta la linea, non perché sia particolarmente infame, ma perché non lascia il segno: il dramma personale di una coppia che ha perso un figlio sfuma sullo sfondo dei traffici di umani a Bahamas, in uno scenario che ci ricorda quanto avviene sulle nostre coste, tra scafisti, mafia locale e carrette del mare che affondano. Il bianco e nero finto indipendente, poi, mortifica inutilmente l’ambientazione.  

Wexford Plaza (Canada 2016, Joyce Wong)
Simpatica questa commedia agrodolce canadese “a specchio”, che ci racconta una storia d’amore (?) tra una tenera guardiana notturna che cerca appuntamenti su Tinder e un ex barista disoccupato che si barcamena tra una relazione con una donna e la difficile ricerca di un nuovo lavoro. Una struttura “doppia” racconta allo spettatore la stessa storia, prima dal punto di vista di lei e poi da quello di lui, mostrandoci una coppia di esseri umani che non hanno capito proprio niente l’uno dell’altro, in una incomunicabilità acuita dai social network e dalla scarsa sobrietà. Storia ben raccontata, per quanto senza grande audacia dal punto di vista tecnico. Menzione d’onore per la spigliatezza della regista, presente in sala (una giovanissima cinocanadese).

Le Voyage au Groenland (Francia 2016, Sébastien Betbeder)
Questo, di tutti i film del festival, è forse quello che mi ha indotto maggiormente al sogno e alla riflessione. Due attorucoli parigini spiantati partono per la Groenlandia in cerca di un momento di fuga dalla vita frenetica: la scusa ufficiale è una visita al padre di uno dei due, che dopo il divorzio ha inspiegabilmente scelto una vita di contemplazione presso una piccola comunità di Inuit. Il confronto con la totale assenza di comfort, con il rigore delle temperature, il sole che non tramonta mai, la lingua incomprensibile e la diffidenza della comunità li indurrà a più di un confronto, tra di loro e con se stessi. Scene davvero potenti, come quelle della caccia alla foca (astenersi vegani) rimangono impresse nella memoria. Un esempio di un cinema che non rinuncia a mostrare l’altro, anche e soprattutto quando l’altro è a noi incomprensibile. Dello stesso regista avrei voluto vedere Marie et les naufragès, ma erano finiti i biglietti.

Turn left, turn right (Cambogia 2016, Douglas Seok)
Peggior film della manifestazione, tra quelli che ho visto: 60 minuti di inutile noia dietro a una ragazza cambogiana che vivacchia tra l'assistenza al padre invalido e una serie di lavori che perde per scarsa convinzione. Salvo la scena della costruzione di un sidecar sdraiato per il padre. Peccato, era il mio primo film cambogiano, avevo alte aspettative. 

Lavender (USA 2016, Ed Gass-Donnelly)
Il bello del TFF è che puoi trovarti inaspettatamente anche davanti a un film molto classico, di quelli che puoi facilmente trovare al cinema in tutte le stagioni, con un surplus di atmosfere e cura tecnica: questo è un thrillerone americano come si deve, con tanto di ricordi sfocati di un’infanzia di abusi, la rimozione e la riconquista del passato tramite il soggiorno nella casa avita rurale. Ambienti claustrofobici che virano all’horror in alcuni punti e una protagonista molto convinta, è Abbie Cornish, che ci ricordiamo perché fu la fidanzata del poeta John Keats in Bright Star di Jane Campion. Niente di eccezionale, ma un bel thriller.




The donor (Cina 2016, Qiwu Zang)
Questo film ha meritatamente vinto questa edizione del Festival: io sono molto felice di averlo visto e ancora di più di aver beneficiato (in qualità di sua casuale vicina di posto) delle opinioni in merito del maestro Nanni Moretti, che alla fine raccontava cose interessanti alla sua vicina (e io ovviamente origliavo). Probabilmente si tratta, oggettivamente, del film più valevole della manifestazione, sia a livello tecnico che per coraggio e intensità della storia. Un popolano desideroso di riscatto sociale ed economico vuole vendere un rene a un ricco magnate, che ne ha bisogno per salvare la sorella da morte certa; questo l’inizio di una persecuzione che finirà nel peggior modo possibile, in un’amarezza davvero insopportabile. Disagio socio-economico versus potere finanziario in una lotta per la vita all’ultimo respiro (letteralmente) per ristabilire una democrazia della morte. Non posso raccontare cosa ne pensa il buon Nanni senza spoilerare, per cui mi esimo. Ma spero che, alla luce della vittoria, questo film trovi un distributore italiano (e in questo caso sono più ottimista).

Cosa mi sono persa (sigh): Nome di battaglia donna (film italiano sulle donne nella resistenza), I figli della notte (thriller lynciano esordio del regista Andrea De Sica, fischiatissimo al festival, ma io ero curiosa), il già citato Marie et le naufragés e…tanti altri, troppi.

E voi? Cos’avete visto? E soprattutto, cos’avete amato? Ditemelo nei commenti, o su FB. E se non siete stati al TFF ditemi quale dei film che vi ho raccontato vi ispira di più!

sabato 7 maggio 2016

Recensione: "Il delitto del conte Neville" di Amélie Nothomb

Dove e quando l'ho comprato?
La casa editrice Voland, come ogni anno, me l'ha gentilmente inviato.

Dove e quando l'ho letto?
Tra l'archivio di stato e la biblioteca

Che cosa?
Il delitto del conte Neville di Amélie Nothomb. Non sarebbe primavera senza il nuovo libro di Amélie. Come a Parigi non sarebbe autunno (NB.in Francia la Nothomb è una superstar e traina tutta la rentrée letteraria settembrina dagli anni '90). 

Perché?
Perché negli anni Amélie non ha mai smesso di sorprendermi: non perdo un suo romanzo da quando la scoprii, da adolescente, una quindicina d'anni fa. 

Con che cosa?
Il racconto dei racconti di Basile e svariati volumi di grammatica storica.


Autore
: Amélie Nothomb
Titolo: Il delitto del conte Neville
Editore: Voland
Traduttore: Monica Capuani
Collana: Amazzoni
Pagine: 93
Prezzo: 14 euro
Anno: 2016
TramaIl conte Neville, aristocratico belga decaduto, è costretto a vendere il suo magnifico castello nelle Ardenne. Prima di uscire di scena, per celebrare l’onore della famiglia, decide di organizzare una lussuosissima festa di addio. Ma nei giorni che precedono l’evento Sérieuse, la sua figlia più giovane, fugge di casa e si nasconde nella foresta. A trovarla è una misteriosa chiaroveggente e sarà costei, dopo aver avvertito il conte del ritrovamento della ragazza, a fargli una spaventosa profezia: “Durante il ricevimento, lei ucciderà un invitato.” Il conte Neville, ossessionato da queste parole, dovrà trovare un modo per sfuggire al suo tragico destino. Riprendendo Oscar Wilde e la tragedia greca Amélie Nothomb gioca con la letteratura e con l’intelligenza dei lettori, fornendo come al solito una sua personale versione dei miti.

RECENSIONE

Ammetto senza vergogna che mi aspettavo di tutto (e in negativo) da quest'ultima fatica nothombiana: io amo Amélie, com'è noto, ma ultimamente i suoi romanzi di pura fantasia mi avevano spesso delusa o quantomeno mai lasciata completamente soddisfatta. In modo particolare penso a Causa di forza maggiore, Viaggio d'inverno e Barbablù, lontani anni luce dai primissimi capolavori L'igiene dell'assassino e Mercurio; differentemente dal filone autobiografico, che invece ha visto un'evoluzione molto positiva.

Un'ambientazione polverosa, aristocratica, staticamente ansiogena, non prometteva granché e anche le recensioni presenti in rete e sui giornali si dimostravano particolarmente impietose, a questo giro. 
E invece, ancora una volta, l'ordigno a orologeria scatta e colpisce nel segno, almeno per quanto riguarda i miei "sentiti" (parola particolarmente importante, probabile calco di un termine psicanalitico di moda in Francia, che l'autrice sbeffeggia a più riprese nel corso della narrazione).

Amélie mette in scena il dramma tragicomico di un aristocratico belga decaduto al tramonto di una stagione di gloria da ospite impeccabile alle prese con l'organizzazione dell'ultimo garden party nella sua tenuta avita crocifissa dalle ipoteche e ormai prossima alla vendita; un canto del cigno che si tinge di noir quando la capricciosa figlia adolescente fugge di casa e la mistica che la ritrova, tremante di freddo nel bosco, fa al conte una profezia di morte, notificandogli che nel corso della festa lui ucciderà un invitato. Seguiranno per il protagonista notti di insonne turbamento, un perenne rinvangare un passato fintamente glorioso, in realtà lastricato di atroci sofferenze, e soprattutto un dialogo al vetriolo con la capricciosa ultimogenita, geniale quanto nevrotica, che vive avvolta in un totale nichilismo.

La risoluzione dell'intrigo è, come spesso in Amélie, la più semplice e forse proprio per questo la meno prevedibile, celata tra le righe della profezia.

Un librino che si legge in mezzo pomeriggio e, al solito, condensa in un impasto denso quanto lieve tanti stilemi cari all'autrice: il sadomasochismo psicologico (nel rapporto problematico tra il conte e l'ultimogenita Seriéuse), il declino inerosaribile di antichi fasti (e anche qui la vanesia Nothomb non rinuncia a citare la sua famiglia tra le più nobili del Belgio, mostrandoci che conosce bene l'ambiente di cui parla), l'ipocrisia sociale, la fame (patita dal conte che, nonostante i banchetti e l'apparente sfarzo famigliare, ha in realtà vissuto un'infanzia di stenti e malnutrizione per ragioni che è interessante conoscere), le citazioni dirette e indirette (Oscar Wilde, la tragedia greca e i racconti d'inverno di Karen Blixen) la veggenza e la predestinazione, e soprattutto la visione estrema di vita, morte ed emozioni che dimostrano gli adolescenti.
Non voglio dire altro sulla trama, per non rovinare il gusto ai lettori, ma ho trovato la costruzione estremamente avvincente e funzionale nella sua linearità.
Invece ho percepito come del tutto accessoria la presenza dei due bellissimi e narrativamente inutili fratelli di Sérieuse, il cui unico scopo è avere nomi (Electre e Oreste) che evocano la tragedia greca. 


Figlia di diplomatici, è nata a Kobe, in Giappone, nel 1967. Nel 1992 viene pubblicato in Francia da Albin Michel il suo primo romanzo, Igiene dell’assassino, che diventa il caso letterario dell’anno: 100.000 copie vendute, due riduzioni teatrali, un film. Nelle edizioni tascabili lo stesso romanzo vende altre 125.000 copie. Da quel momento pubblica un romanzo all'anno, fedele alla stessa casa editrice, Albin Michel, come in Italia è fedele alla Voland. Il romanzo Stupore e tremori (Albin Michel 1999) ha venduto in Francia 400.000 copie. Tradotta in 15 lingue, ha ottenuto numerosissimi premi letterari tra cui il Grand Prix du roman de l’Académie Française e il Prix Internet du Livre per Stupore e tremori (da cui è stato tratto anche un film diretto da Alain Corneau), il Prix de Flore per Né di Eva né di Adamo e due volte il Prix du Jury Jean Giono per Le Catilinarie e Causa di forza maggioreSin dal suo primo romanzo Amélie Nothomb ha imposto uno stile: sguardo incisivo, spesso impietoso e crudele, umorismo fulmineo, storie originali che ruotano intorno a sentimenti eterni.